
Alessandro Moscè, il “Fenomeno”
Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Si occupa di letteratura italiana. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme, 2005), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali, Bergamo, 2008), Hotel della notte (Aragno, Torino, 2013, Premio San Tommaso D’Aquino), La vestaglia del padre (Aragno, Torino, 2019) e Per sempre vivi (Pellegrini, 2024, Premio Poesia del Mezzogiorno). E’ presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale, Ancona, 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano, Roma, 2012), L’età bianca (Avagliano, Roma, 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville, Siena, 2018, finalista al Premio Flaiano) e Le case dai tetti rossi (Fandango, Roma 2022, Premio Prata). Ha dato alle stampe l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari (Il lavoro editoriale, Ancona, 2003); i libri di saggi critici Luoghi del Novecento (Marsilio, Venezia, 2004), Tra due secoli (Neftasia, Pesaro, 2007), Galleria del millennio (Raffaelli, Rimini, 2016), l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento The new italian poetry (Gradiva, New York, 2006) e la biografia Alberto Bevilacqua. Materna parola (Il Rio, Mantova, 2020). Ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva” e scrive sul quotidiano “Il Foglio”. Ha diretto il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”. Il suo sito personale è www.alessandromosce.com
Alessandro, qual è la sua formazione culturale? Quale scuola e quale facoltà universitaria ha frequentato?
La mia formazione è umanistica, perché vengo da studi liceali e di Giurisprudenza. Sono avvocato. Sembrerebbe una contraddizione in termini, ma non lo è. L’avvocato e lo scrittore fanno la stessa cosa perché sono entrambi difensori dell’uomo, diceva Giorgio Saviane, un grande narratore del secondo Novecento. Ho sempre letto molto, sin da quando ero bambino. Sono sempre stato il più bravo della classe in italiano scritto, seppure fossi tutt’altro che uno studente modello. L’indisciplina era un tratto peculiare del mio carattere.
Quando e come ha scoperto il suo talento? Quando ha capito che scrivere è ciò che le piace fare nella vita?
Scrivere è una vocazione, non una passione. E’ perfino una condanna, perché non puoi farne a meno. Sono trascinato da una tensione elaborativa di tipo immaginativo che mi appartiene costituzionalmente, per così dire. Non ho scelto di fare un mestiere borghese e incasellato in un ruolo tradizionale seguendo una prassi consueta come quella dei miei compagni di scuola e di università. Sono giornalista e mi occupo prevalentemente di cultura e di inchieste. Collaboro con varie testate e riviste, ma Fabriano e Ancona rimangono il mio centro propulsore, dove ambiento anche gran parte dei miei romanzi e delle mie poesie. Faccio il letterato specie di prima mattina, all’alba, tutti i giorni.
Quale genere ama particolarmente? Qual è il suo scrittore prediletto?
Ho iniziato a scrivere poesie e non ho mai smesso. La narrativa è l’altro versante. Non ho una predilezione per un genere o per l’altro e mi sono cimentato anche nella critica. Tre linguaggi e tre modi di vedere il mondo, il mio e quello degli altri. Sono stato influenzato dalla lettura di Dante, Manzoni, D’Annunzio, Leopardi, Hemingway, dai poeti francesi. Ma soprattutto dai contemporanei. Non saprei dire qual è il mio scrittore prediletto. Certamente i narratori non ideologici italiani, tra cui Alberto Bevilacqua che ho frequentato a lungo. Quindi i poeti della terza generazione: Sereni, Caproni, Gatto, Penna. Ho amato moltissimo Moravia e considero Edoardo Albinati il miglior romanziere di oggi. Potrei nominare molti altri autori del passato e del presente, alcuni dei quali conosco di persona.
Qual è il suo libro preferito tra quelli non suoi? E qual è il libro che ama di più tra quelli scritti da lei?
Il mio romanzo preferito, seppure non sia uno scrittore che ama il fantastico, è La metamorfosi di Kafka, perché ha uno sfondo esistenziale, in cui il cambiamento esteriore è il riflesso di come ci vedono gli altri e della nostra inadeguatezza. Un archetipo e una paura inconscia del giudizio degli altri, in fondo. Il mio libro che amo di più è il romanzo Il talento della malattia edito da Avagliano nel 2012. Mi ha dato la notorietà nazionale. Sono uscite quattro edizioni e “Il Sole24Ore” lo ha considerato tra i più bei romanzi di quell’anno.
Qual è il suo rapporto con la Lazio di cui spesso parla nei suoi libri, soprattutto nel best-seller Il talento della malattia?
La Lazio è un patrimonio familiare, per così dire. La passione l’ho ereditata da mio padre. Il mio idolo di bambino è stato Giorgio Chinaglia, il giocatore più rappresentativo in 125 anni di storia della società. Mi è stato vicino quando ero ammalato. Il calcio è qualcosa di più, però. Lo ha detto esemplarmente Pier Paolo Pasolini: il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, dopo la Messa e il teatro. Lo sport competitivo della domenica, del resto, è anche la metafora della lotta per la sopravvivenza, come nelle guerre e come accade all’animale predato.
Lei si sente più poeta o narratore?
Sono poeta e narratore, appunto. Il poeta è istintuale e si libera dell’incombenza dell’io e del suo mondo interiore. Il narratore pianifica il suo lavoro ed ha un’impronta più razionale specie nel vestire e nell’interpretare i personaggi.
Oltre a scrivere libri fa il giornalista. Cosa le piace di questo mestiere? E cosa non le piace?
Non amo il clamore, la metastasi delle notizie che si esauriscono nel giro di poche ore. L’informazione, di fatto, sta soppiantando la conoscenza. I social hanno intensificato la dipendenza dalla viralità, e non è un bene, perché ne va dell’attendibilità di chi diffonde i fatti, spesso minimi. Amo le inchieste, gli approfondimenti. Uno di questi, sui quali ho studiato e lavorato per anni, riguarda il mostro di Firenze. Le recensioni dei libri che mi piacciono sono la parte più interessante del mio lavoro, uno spazio di assoluta libertà. Ricevo all’incirca dieci libri alla settimana e non so più dove metterli. Molti ne regalo, altri li tengo accatastati sapendo che non avrò il tempo di leggerli.
Un’ultima domanda. Come vede Fabriano, la nostra piccola città, da molti giudicata opprimente? La ama o la detesta?
Fabriano e ogni altra città sono luoghi universali e alienati, più che alienanti, direbbe Franco Scataglini, il poeta dialettale di Ancona entrato definitivamente nel canone del Novecento. Il vantaggio della provincia è che il tempo scorre più lentamente, è più romantico, velato da una certa malinconia. Una postazione ideale per scrivere, direi. Se vuoi essere universale parla del tuo villaggio, diceva un grande scrittore. L’importante è non cadere nel municipalismo e nella parola comune, stereotipata. La letteratura, non dimentichiamolo, è innanzitutto un linguaggio.
Davide Renelli
Lina Abdellaoui